IL SUICIDIO ASSISTITO: LE PROSPETTIVE DEL CNB E I FATTORI CHIAMATI IN CAUSA. PT2
IL SUICIDIO ASSISTITO – LE PROSPETTIVE DEL CNB E I FATTORI CHIAMATI IN CAUSA. PT2
Nella prima parte della trattazione si è realizzata una panoramica del tema del suicidio e della sua complessità. In questa sede saranno analizzate, con l’ausilio delle carte redatte dal Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), le posizioni emerse in seno alla discussione.
Posizione n° 1 – il suicidio assistito non deve essere legalizzato
La prima fazione rivendica “la difesa della vita umana come principio essenziale in bioetica” in seno ai seguenti assunti: in primo luogo, la legittimazione del suicidio mina la deontologia delle professioni sanitare, le quali, con il giuramento di Ippocrate, sono tenute a “perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza […] di non compiere mai atti finalizzati a provocare la morte”. Inoltre, in un momento di sofferenza non è possibile avere la certezza che la richiesta di suicidio da parte del paziente non sia frutto di un condizionamento familiare, religioso, sociale o psicologico per conto di terzi. Per i suddetti motivi, ad avviso della posizione, risultano sufficienti gli interventi già in essere, ovvero la libertà di rifiutare e interrompere le cure, l’accompagnamento alla morte a mezzo di terapia del dolore e cure palliative, nonché una adeguata assistenza psicologica nel percorso di fine vita. Viene rivendicata, inoltre, la libertà del medico di proseguire o meno l’assistenza, in scienza e coscienza, del paziente che rifiuta il trattamento di cura salvavita.
In secondo luogo, ammesso che la legittimazione avvenga, risulta inevitabile “uno scivolone” morale non di poco conto che, sulla falsariga dei modelli del Nord Europa, allenterebbe progressivamente i vincoli della disciplina in maniera incontrollata aprendo così la strada a suicidi di massa anche a categorie sociali fragili. Il suicidio, in questo modo, risulterebbe l’escamotage sociale per non ascoltare i soggetti in difficoltà, avviando così un processo di deresponsabilizzazione statale verso la parte fragile del Paese.
Posizione n° 2 – il suicidio assistito necessita di essere legalizzato
La seconda fazione denuncia: “non si può penalizzare chi già soffre in attesa di una maggiore sensibilità sociale da parte dello Stato”. La persona, in conformità al principio di autodeterminazione, ha il diritto di morire in maniera dignitosa e la sofferenza non può privarlo della stessa: infatti, imporre trattamenti di tipo medico come nutrizione e respirazione artificiale, ventilazione meccanica e altri interventi analoghi solo per ovviare un problema esistente, oltre ad essere incostituzionale, impone ulteriori sofferenze al paziente. Vengono inoltre denunciate le disomogeneità, a livello regionale, della disponibilità e accesso alle cure palliative e speciali, provocando una discriminazione a monte che non può essere tollerata. Il suicidio, inoltre, non deve essere incentivato in nessuno caso e solo il paziente può richiederlo in libertà e coscienza.
In secondo luogo, le parti coinvolte si pongono un legittimo interrogativo: perché è etico “lasciar morire” il paziente permettendogli di rifiutare le cure, e non lo è invece se il paziente chiede di morire essendo aiutato a raggiungere lo stesso risultato ma in tempi più brevi e preferibilmente senza agonizzare? Inoltre, la posizione suddetta ritiene che la stessa idea di suicidio possa “fornire un senso di sicurezza al paziente”, perché lo renderebbe consapevole della possibilità di preservare la propria dignità fino alla fine, senza farne mai esplicita richiesta.
Tuttavia, il provvedimento deve essere regolato da una rigida disciplina e può essere legittimato solo ed esclusivamente in presenza dei seguenti casi: “presenza di una malattia grave e irreversibile accertata da almeno due medici; presenza di un prolungato stato di sofferenza fisico e psichico; la formulazione iterata nel tempo di richiesta di suicidio da parte del paziente”.
Posizione n°3 – prima riformiamo il SSN e riformuliamo i concetti di morte e sofferenza, poi torniamo a parlarne.
La terza ed ultima posizione cerca di mediare le due, portando all’attenzione dell’assemblea l’assunto seguente: è possibile fare richiesta di suicidio in armonia con il diritto di autodeterminazione degli individui esclusivamente a patto che il nostro Paese goda di un SSN in grado di garantire cura, assistenza, ascolto e attenzione omogenea a tutta la popolazione: “disponibilità di strutture adeguate, accesso alle cure palliative e non, sostegno psicologico e psichiatrico devono essere garantiti al di là di qualsiasi provvedimento”. All’attuale stato di cose, il nostro Paese risulta letteralmente spaccato in due, realizzando già così una discriminazione e inefficienza a monte che non potrà proseguire a lungo (il Covid-19 ha messo in evidenza un’inadeguatezza strutturale frutto di anni di irragionevoli tagli). Il seguente assunto pare sufficiente anche per la difficoltà di attuazione della sola L.219/2017.
In secondo luogo, si ritiene necessaria la riformulazione del concetto di sofferenza e di suicidio: qual è la vera sofferenza che il paziente intende davvero debellare nel momento in cui fa richiesta di morire? Partendo dal presupposto secondo cui “il suicidio è un attacco letale alla vita in sé”, le parti coinvolte affermano che in realtà la richiesta di suicidio è una richiesta di aiuto non “per uccidere se stessi, ma per liberarsi di un corpo divenuto una prigione”. Pertanto, in virtù dell’attuale status quo in cui vige il nostro SSN e in attesa di un’attenzione seria da parte dello Stato sulla materia sanitaria, l’unico rimedio per adempiere ad una richiesta che non può essere oggettivamente accolta per cause strutturali, si richiede un incremento di applicazione e studio più incisivo delle cure palliative anche in presenza del rifiuto alle cure, al fine di tutelare i pazienti fino alla morte nella maniera più dignitosa possibile.
Roberta Bagnulo