COVID – 19 E IL PARADOSSO DEL TEMPO CHE MUORE.
Lo status di blocco in cui l’individuo si è visto costretto a rimanere, da un momento all’altro, a seguito del proclamato stato di emergenza nazionale per Covid-19, ha fatto sorgere tra le persone una doppia reazione: c’è chi vi ha colto un’opportunità per riappropriarsi di sé e degli affetti, c’è chi invece ha sviluppato un atteggiamento agorafobico (o claustrofobico?) e isterico verso un tempo libero che non riesce né a colmare, né a trascorrere. In questo articolo parleremo del secondo caso, un vero paradosso che si diffonde in concomitanza al virus.
Al di là delle credenze di ciascuno, si nasce, il quando e il dove non lo si sceglie; se va bene, si può scegliere il “come” trascorrere la propria vita, vincolata da doveri civili, sociali, lavorativi e familiari che restringono ulteriormente il campo di libertà individuale. Si vive costantemente in apnea dal momento in cui si inizia a camminare con le proprie gambe e si viene gettati nel mondo, cercando di cavarsela sulla base dei valori che ciascuno porta con sé. Si vive cercando per tutta la vita di capire cosa sia la felicità, che è uno status tremendamente soggettivo, ma che induce l’uomo alla ricerca di un crescendo di emozioni forti, l’ennesimo tentativo per prendere coscienza di esistere sul pianeta, di lasciare una traccia per non essere dimenticati.
Le stesse emozioni forti a cui si anela sono le stesse che distruggono l’individuo, oggi, nel totale vuoto del cosiddetto “tempo morto”: non corre più, sembrerebbe quasi fermo, non si riempie con niente, è silenzioso, forse troppo. Terminata un’attività se ne cerca immediatamente un’altra, un altro film, un altro libro, un altro brano musicale, un’altra telefonata, qualunque cosa per distrarsi dal silenzio. Alla finestra si cerca il rumore di qualche clacson, persino l’ambulanza ha iniziato a consolare. Si ha paura dell’ora che seguirà, come sarà domani e il domani. Perché il silenzio fa così paura? Perché il tempo libero è diventato una gabbia?
Antonio Tabucchi (1943 – 2012) grande scrittore del Novecento, nel suo libro “Sostiene Pereira” parafrasa sottoforma di dialogo il concetto di evento tracciato da Freud in questi termini:
“l’evento è un avvenimento concreto che si verifica nella nostra vita e che sconvolge o che turba le nostre convinzioni e il nostro equilibrio, insomma l’evento è un fatto che si produce nella vita reale e che influisce sulla vita psichica, Lei dovrebbe riflettere se nella sua vita c’è stato un evento”
Cosa è accaduto all’uomo dell’ultimo ventennio, da non sopportare nemmeno se stesso? Perché non è capace di restare a guardare il muro per più di cinque minuti, pensando al Nulla o a tutta la sua vita? La risposta è tutt’altro che univoca e per ogni persona l’evento è diverso. Qualsiasi sia la sua natura, è importante trovarlo e guardarlo in faccia per bastarsi, per essere padrone e non succube di una paura che non si riesce ad identificare.
Il paradosso giunge al culmine nel momento in cui si constata che il tempo era un concetto astratto, reso concreto e misurato maniacalmente dall’uomo stesso, che oggi vorrebbe distruggere perché la macchina corre da sola, senza il suo consenso e gli chiede il conto. L’uomo dunque avrebbe a che fare con due virus e due tipi di morti: il Covid-19 e il Tempo, entrambi sfuggiti di mano per un errore di prudenza e modestia di immunità.
Dostoevskij nelle ultime righe del celebre “Memorie del Sottosuolo”, nel lontano 1865, definisce l’uomo così:
“Ci è penoso perfino essere uomini con un corpo vero e proprio, col sangue nelle vene; ci vergogniamo di questo, lo consideriamo un’onta, e ci sforziamo in ogni modo d’incarnare un certo tipo di uomo universale che non è mai esistito. Noi siamo nati morti, già da un pezzo non siamo più generati da padri viventi, e la cosa ci piace sempre di più. Cominciamo a prenderci gusto”
Cosa sta diventando l’uomo con il Tutto e il Nulla che gli sfuggono di mano? Forse, dovrebbe smetterla di fuggire da se stesso.
Roberta Bagnulo