APPUNTI DI UNO SPACCIATORE DI TEMPO
Il tempo. Maledetto tempo. Potessi averne di più. Perché questo tempo non basta mai? Più ne hai e più ne vorresti. Il tempo è prezioso. Una sorta di oro astratto che l’umanità cerca in modo spasmodico, disperatamente. «Tu sei giovane e la vita è lunga e c’è ancora tempo da sprecare oggi», cantano i Pink Floyd dalle casse del mio stereo. In fondo è vero. Quando siamo giovani non ci accorgiamo dell’importanza del tempo. Di quanto i ricordi migliori si vivono proprio durante la gioventù. Ma quando si è intenti nell’ardua missione di scoprire la vita il tempo sembra non passare mai. O meglio, scorre più lentamente.
Si entra in una sorta di seconda dimensione dove tutto viene amplificato e sembra andare al rallentatore. Amici. Parenti. Gusti. Talenti. Una vita intera pronta a formarsi mentre tutto intorno a noi sembra avere tutto già scritto,già tutto stabilito per noi e per il nostro destino. Ma in fin dei conti, che cosa significa davvero vivere il tempo? Bella domanda. Il fatto è che non lo sappiamo più nemmeno noi. Siamo oramai schiavi dell’abitudine, delle routine che ci vengono imposte e che ci fanno credere che siano fondamentali per poter avere una vita piena ed appagante. Vaghiamo sempre con la testa fra le nuvole, intenti ad andare di gran carriera verso il nostro prossimo impegno.
Cercando di andare a vivere con il medesimo ritmo frenetico un nuovo giorno. L’assolo è finito. Il ritmo della canzone cambia. «Il sole è sempre lo stesso, relativamente parlando, ma tu sei più vecchio, con il fiato più corto e con un giorno in meno da vivere». Ed ecco che frase più veritiera non poteva essere scritta. Batto nervosamente le dita sulla tastiera del mio computer. Seguo con gli occhi il testo che si palesa sul monitor. Scrivo l’ultimo periodo. Ecco un nuovo articolo. E anche per oggi ho fatto il mio dovere da giornalista, rimanendo in tema di routine quotidiana. Mi stropiccio gli occhi. Tutto quel tempo davanti al computer non fanno di certo bene alla mia vista e alle mie malandate diottrie.
Mi alzo dalla scrivania con la gola asciutta. Mi trascino in cucina in cerca di qualcosa da bere. Frugo svogliato nel frigo, scartando qualsiasi cosa mi si presenti davanti. Guardo con irriverenza la bottiglia d’acqua e le mie ricerche si spostano in salotto. Trovo una bottiglia con l’effige della Vergine Maria, dentro la quale ho versato del whiskey. Probabilmente quando l’ho fatto credevo di essere dannatamente spiritoso. O forse ero troppo ubriaco per pensare di esserlo. Afferro la Sacra Bottiglia in tutta la sua vitrea magnificenza e tracanno tutto il contenuto senza battere ciglio. Dopo pochi istanti un rigurgito acido si leva dai meandri più profondi delle mie viscere.
Vado in bagno e mi sciacquo il viso. Ho proprio bisogno di prendere una boccata d’aria. Vago per Nevrotic Town senza meta, sperando di dare un senso a quella serata in qualche modo. Giungo in metro, alla fermata di Fulton Street. All’ingresso c’è un grande cartellone completamente bianco. Una di quelle nuove iniziative comunali che vogliono insegnare ai cittadini il rispetto dell’arredo urbano e nello stesso tempo stimolarne la creatività. Sopra quell’immenso foglio bianco un cartello su cui viene suggerito un tema sul quale passeggeri e passanti possono dilettarsi a scrivere.
Mi soffermo a guardare quanto sia vuoto quel cartellone. Poi mi avvicino per leggere meglio il tema suggerito. Che cos’è secondo voi la scrittura? Bella domanda, cartellone. Davvero una bella domanda. Cosa vuoi che sia la scrittura per una società dove il mezzo di comunicazione più diffuso ed efficace è lo smartphone? E la penna, questa sconosciuta? Andata in pensione.
Passata di moda senza comprenderne il perché. Tiro fuori la mia Bic nera, fedele compagna di numerosi articoli riportati sul mio dannatissimo taccuino nero degli appunti. La guardo, sotto la luce artificiale dei fari della metro. La guardo come si fa con un vecchio amico o con un parente anziano che ha qualche saggio consiglio da darti su un problema che ritieni senza soluzione. Inizio a parlare ad alta voce. O è il whiskey? Ma chi se ne frega. Che gli altri mi guardino pure con quell’aria compassionevole, riservata a barboni e picchiatelli. Inizia lo show. «Per me la scrittura è libertà. Essere liberi di pensarla come si vuole. Permettere al lettore di giungere in una piccola isola felice che non è ancora stata contaminata dalla realtà e dai suoi schemi prestabiliti».
Ecco che un ragazzo, probabilmente uno studente universitario, si ferma a sentire il mio sproloquio alcolico sul mio amore per la scrittura. «E’ una maniera per togliere il lucchetto dai freni inibitori della nostra fantasia, nonché linfa vitale per la cultura». Gli spettatori iniziano ad essere diversi. Tra chi mi lancia qualche quarto di dollaro, chi si mette a ridere e chi mi insulta abbaiandomi di andarmi a trovare un lavoro. «Barbone, vai a trovarti un lavoro!» Sorrido. E c’è anche chi mi ascolta, sinceramente interessato. Ah, la gente! Come diceva qualcuno che se ne intende, è lo spettacolo più bello del mondo e non devi pagare il biglietto.
«La scrittura è per me, in un certo senso, anche una forma di salvezza. Perché avere la possibilità di scrivere ciò che si pensa, mettere nero su bianco ciò che proviene dalla nostra mente è una delle cose più belle del mondo. Dopo il bere e il sesso, ovviamente». Dai miei improvvisati spettatori giungono risate sincere. Qualcuno abbozza anche un timido applauso. Faccio un maldestro inchino in segno di ringraziamento per poi tornare in superficie, in cerca di altre maniere di passare la serata. Continuo a camminare senza una meta apparente. Ad un certo punto si alza un vento che inizia a spazzare tutto ciò che incontro sul suo cammino. Mi fermo lungo Estrelle Boulveard e mi fermo ad ascoltare il rumore delle foglie degli alberi mosse dal vento. Un suono che trasmette tranquillità, che stride con la perenne fretta che regna sovrana tra le strade di Nevrotic Town.
Quel rumore mi porta verso paesaggi caraibici, dove all’orizzonte il sole tramonta per lasciare posto alla notte seducente. Sole, palme e rum. E in un secondo mi ritrovo dove vorrei essere. Avverto il tepore del sole sul mio viso. E la sabbia dolcemente alzata da quel vento magico. La routine diventa solo un ricordo mentre in lontananza sento il garrito stridulo dei gabbiani. Li guardo mentre sorvolano in piena libertà il mondo. Liberi di visitare il mondo senza ostacolo alcuno. Poi il suono del clacson di una macchina poco lontano mi riporta bruscamente alla realtà. Mi frugo nelle tasche. Tre dollari e pochi spicci. Decido che è arrivato il momento di porre fine a quella mia improvvisa gita notturna.
Torno a casa e mi getto a peso morto sul divano. Luci spente. Lungo la finestra della cucina solo la luce rossa intermittente dell’insegna al neon di Frankie’s, il locale al fondo della strada. Rimango a faccia in giù sul divano senza fare nulla. Senza muovere un muscolo. Senza che nessun pensiero mi attraveri la mente. Resto in ascolto. Niente. Solo l’assordante rumore dei miei pensieri. Penso velocemente a ciò che dovrò fare domani. Un nuovo giorno. Un nuovo problema su cui scrivere. Un nuovo articolo da fare. Quella situazione è perfetta. Chiudo gli occhi e mi ritrovo a volare su cieli sconosciuti verso rotte da scoprire. Una sensazione di libertà incredibile. Unica. Totale. Dalla porta di Frankie’s arrivano le prime note di Enjoy The Silence dei Depeche Mode. In effetti hanno ragione. Il silenzio non è poi così male per capire meglio questa immensa maratona comunemente detta vita.