JACK WHITE, L’ANTICONFORMISTA DEL ROCK
Jack White è quello che da diverso tempo non aveva la fortuna di accadere nel mondo del rock. Il suo è una sorta di bipolarismo artistico capace di creare qualcosa in grado di lasciare il segno, qualsiasi sia l’esperienza musicale che sta portando avanti. Ha avuto modo di dimostrarlo con i White Stripes e con la sua carriera solista di tutto rispetto.
Questo perché White è un artista analogico in un mondo digitale. Laddove idoli di plastica creano melodie preconfezionate che hanno una data di scadenza, il suo modo di fare e di intendere la musica riesce a raggiungere le corde del cuore dei puristi della musica. La sua ossessione per la ricerca del suono perfetto può essere paragonata alla cinematografia maniacale di Quentin Tarantino: una grande cultura messa a disposizione di quel pubblico che è ancora in grado di emozionarsi quanto comprendere di essere di fronte ad un artista in grado di produrre del materiale di qualità.
Proprio questa sua morbosità per la purezza del suono ha fatto si che quando nel 2003 ha pubblicato con i White Stripes il loro quarto album intitolato Elephant alla stampa inviava copie del disco solamente in vinile, accompagnate da un biglietto recante la scritta “Non ci fidiamo di un giornalista che non possiede un giradischi”. E’ stato anche uno dei primi a credere nel potenziale commerciale del vinile in tempi in cui era considerata solamente una moda passeggera ma che con il tempo si è rivelato uno dei modi più diffusi di usufruire la musica, nonché il più remunerativo (assieme allo streaming) per l’industria musicale.
Rassicurato da questi dati White, che possiede l’etichetta discografica Third Man, ha aperto a Detroit una fabbrica di vinili. Una cosa simile non accadeva da ben trentacinque anni. E’ vero che viviamo in tempi in cui anche la musica è diventata liquida, facilmente usufruibile da qualsiasi dispositivo tecnologico che affolla le nostre tasche, ma è un dato che deve assolutamente far riflettere su quella fetta di popolazione (all’apparenza molto ampia) che vuole ancora una certa qualità sonora accompagnata ad un altrettanta qualità di contenuti.
Ed è proprio questa una delle formule del suo successo: rendere una cosa talmente semplice da farla diventare fottutamente geniale ed iconica. Come quel giro di basso trasformato in un assolo di chitarra stridulo ma in grado di gridare tutta la sua voglia di lasciare il tempo nelle pieghe del tempo della storia del rock di Seven Nation Army, anni prima che quello stesso giro di basso diventasse la colonna sonora del populismo calcistico.
Jack White sembra quindi un personaggio d’altri tempi, uscito da qualche film di Tim Burton. Una sorta di “cappellaio matto” in salsa gotica che, una volta imbracciata la sua chitarra, è in grado di ammaliare grazie al suono diabolicamente graffiante di quello strumento che nelle sue mani diventa arma di fascinazione di massa.